Barracuda

A modo mio. Volevo vivere quelle settimane tropicali affinché potessi ricordarmene davvero per tutta la vita. E non è facile. Dici sempre che questa o quell’esperienza sono state indimenticabili, ma poi pian piano la foto si sbiadisce. Cominci a perdere il tepore dei dettagli, le sensazioni più fisiche di quei momenti che ti hanno lasciato il cuore così irragionevolmente spalancato. E l’esperienza indimenticabile, piano piano, diventa una storia da raccontare. Stavolta no: stavolta volevo qualcosa che potesse ritornarmi in mente ogni volta che avessi solleticato quel ricordo, schiacciando un tasto magico, annusando un soffio tipico.
Barracuda. Marcello mi aveva insegnato davvero bene a pescare da quel molo. In teoria potevo cavarmela da solo. Io. Un molo di legno che si addentrava solo per qualche metro nel mezzo del canale che, con la marea, poteva essere una spiaggia umida o una piscina assolata. Un cappello di paglia comprato per dieci dollari da un’artigiana oversize in paese. Una scatola puzzolente di calamari mollicci da gettare in mare, volgari maschere dell’infernale strumento con cui darò la morte a quel predatore. Io e tutte quelle ore davanti a me. Senza sapere quando e come agirò. Agiremo. Senza saperlo dà ansia. Tensione.
Lancia la lenza. C’è una tecnica per evitare di annodarti, tu e la tua piccola storia. C’è una tecnica per preparare, lanciare, tirare. C’è una tecnica anche per vivere senza delusioni, dicono, ma io non la conosco ancora. Prepara. Lancia. Tira. Prepara. Lancia. Tira. Swoosh.

 Ho sentito una scossa, forte, all’altezza del polso. Poi la canna ha fatto leva e sono quasi caduto in acqua. Swoosh. La bestiola saltava a distanza di trenta metri da me. E tirava. Cazzo se tirava. Nella lotta mi accorsi che il sole era basso e quei maledetti mosquitos cominciavano a ronzarmi attorno. Dovevano essere le sette, le sette e mezza. Swoosh. Tira. Lascialo riprendere. Tira. Lascialo riprendere. Minuti che erano anni mentre i miei bicipiti ed i miei avambracci si gonfiavano di quel peso scodante. La lotta doveva infine scoraggiarlo, quel pesce, mi sembrava proprio un barracuda, quello che ogni tanto faceva capolino in zona per cacciare. Minuti che sembravano anni mentre il filo non voleva mai riavvolgersi, mentre quel maledetto serpentone cercava di liberarsi consapevole, ne ero certo, dell’imminente epilogo. Ma l’amo aveva preso bene, cominciavo a vederlo, ce l’aveva conficcato in corrispondenza delle branchie. Quando me lo trovai a due passi, io sul molo e lui in acqua a dare qualche residuo segnale della sua forza dirompente, decisi di dargli approssimativamente un peso: quindici chili o giù di lì. Cacchio. Un brivido mi correva dietro. Fu Marcello ad assistermi in quei momenti. Scendere? I suoi denti sembravano un invito "at your own risk". Trascinarlo lentamente fuori dall’acqua? Gli scogli potevano permettergli un’involontaria fuga, e poi la marea cresceva. Inesorabile. Decidemmo di afferrare la lenza a debita distanza per poi estrarre il piscione con guanti da maniscalco ed appoggiarlo su una roccia ben orizzontale. A quel punto avrei dovuto colpirlo con un machete sul cranio per togliergli il soffio vitale. Mi sentivo un boia che affila la lama della ghigliottina.

 Non so neanche quanti colpi gli ho inflitto. Aveva la testa di marmo, anzi no di acciaio. Si formava solo un piccolo segno sanguinante e niente più. Durezza della natura che resiste. Non so neanche dove l’ho trovata la forza per tutto questo. Fossi stato in Italia a pescare trote a quell’ora l’avrei già liberata. E invece no. Quel trofeo, quell’enorme e pericoloso essere che poteva star bene imbalsamato sulla parete di un bistrot caraibico tra rhum e sigari arrotolati a mano, mi stava dando energie insospettate. Le usai. Ed alla fine non ebbi quasi la forza di tenerlo per la coda nel momento, ormai inevitabile, della foto di rito.

E quella non è una storia da raccontare. Quella non è una fiaba che col tempo cresce e si arricchisce e si colora. No. Quella è una dannata traccia della mia vita. Una vera, insolente, salatissima freccia nella memoria chiassosa... del mio privatissimo hard disk. 

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