24 anni fa, Achtung Baby (e poi io, Tavolara ed il mare)
Il ricordo di un album memorabile cullato dal silenzio di un posto memorabile
Il gommone nel centro preciso di
un’insenatura sul lato Nord di Tavolara. Il verde così verde da sembrare finto,
una macchia dilagante tra colori più intensi e densi che sanno di estate e di calore.
La temperatura, dell’aria e dell’acqua - così calda da risultare eccezionale per
un’isola normalmente ventosa - faceva pensare ad isole caraibiche ben più
lontane e, troppo spesso, precipitosamente idealizzate. L’imbarcazione era
immersa in un alone di luce riflessa che produceva foschie e riverberi, uno spruzzo bianco nell’esercitazione giornaliera della Natura che rischiava di
essere un’offesa; un pugno nello stomaco della perfezione di quell’angolo di
mare. Pochissime le imbarcazioni intorno, tutte molto lontane, così lontane da
farmi pensare alla musica. Farmi pensare a come lei, la Musica, avrebbe potuto
aiutarmi a rimettere in ordine i pensieri e governare la mia malinconia che,
gelida, si insinuava sotto la mia pelle con un brivido. Questa volta potevo
disporre di una tecnologia ben più evoluta che in passato: la mia cassa Bowers
& Wilkins diffonde un suono pieno, rotondo, potente nonostante la
dimensione contenuta e la batteria che la alimenta. E’ un piacere per le
orecchie consegnarle melodie coerenti col contesto e lei sembra quasi avere
delle preferenze perché in taluni casi il volume sembra distorcere il suono, in
altri sembra non voler smettere mai di salire e di irradiare i presenti con i
suoi rimbalzi di frequenze. Da qualche giorno pensavo ad un unico album, che mi
aveva accompagnato in un periodo molto particolare della mia adolescenza: Achtung Baby degli U2.
Era molto tempo
che non lo ascoltavo forse per un senso di ripicca nei confronti di questa band
che da esempio rivoluzionario, e guida, col tempo si è lasciata contagiare dalla
frenesia della classifica iTunes: il risultato è una buona band rock-pop come
ce ne sono tante, anzi in quel territorio lì c’è chi se li mangia in un sol
boccone (e penso ai Killers). Gli U2 di Achtung Baby erano una specie di tribù
arrivata all’apice del Rock con la voglia di stravolgere tutto ciò che si era
ascoltato sino a quel momento. L’album mi ipnotizzò per ore ed ore consecutive
di ascolti. Cercavo di scovare qualche difetto ma non ci riuscivo e l’attesa
per quel Tour fu snervante, soprattutto con l’epilogo della prevendita al
Palalido, centinaia di persone accalcate, e poi la data del concerto rinviata
di quarantott’ore. Il ricordo dell’album era vivido nella memoria e avevo paura
di corromperlo con un ascolto fugace ed improvvisato. Ma decisi che era il
momento di ritornare ai primi anni ’90. Per fortuna Deezer mi ha permesso di
scaricare l’album, nella sua edizione Deluxe, in pochi minuti. La copertina mi
ha ricordato l’abitudine che avevo di girare la cover del cd per mostrarne il
retro. I suoi colori sul blu e sul nero, la leggendaria Trabant. La faccia bianca di Bono. E ho cliccato Play.
I tamburi profondi, il basso
ripetitivo, il delay della chitarra, la voce appoggiata su un letto di note
tutte così diverse tra un brano e l’altro eppure così coerenti nella geometria
del disco. Mi sono commosso. Non era una sorpresa che sapessi tutte le canzoni
a memoria, il mio cervello è un hard disk di dimensioni eccezionali quando si
tratta di recuperare liriche per un canto che vorrei tanto fosse superiore a
qual è in effetti ma non me ne preoccupo… e canto, canto sempre… Mi sono
ricordato di quanto One fosse un
passaggio obbligato delle cassette che facevo per le mie amiche. Canzone che,
molti anni dopo, fu clonata dallo stesso Bono in un duetto con Mary J. Blige
che, sì, è gradevole all’orecchio ma perde tutta la nebulosa e cupa poetica
della versione originale. Soprattutto se ripenso al video, ovattato e quasi
nevrotico, con i bisonti e le ombre che si inseguono. Poi ho riscoperto Until the end of the world e la
meraviglia del film di Wenders, improvvisamente materializzato davanti ai miei
occhi, con le sue oniriche visioni di un futuro fatto di menti leggibili e
visualizzabili attraverso un computer. Improvvisamente avevo davanti agli occhi
le distese desertiche del film e queste si fondevano all’isola che davanti a me
sale, su, fino a quasi mille metri di altitudine e trasforma il panorama in un
quadro lacustre non appena il mare si placa e si trasforma in una distesa oleosa
e silente. L’emozione vera, però, mi travolge con Who’s gonna ride your wild horses. Una canzone strabiliante per l’orecchio,
con questo urlo straziante, ma anche per la mente che la legge
Well you left my heart empty as a vacant lot
For any spirit to
haunt
Mi sorprende pensare a questo
disco dopo The Joshua tree o Rattle and hum. Parla di una tribù di musicisti
che le ha provate e sperimentate forse tutte, colorando il rock con venature tanto
malinconiche quanto rabbiose, arrivando ad un momento in cui si può anelare la
perfezione. La stessa sensazione ce l’ho con Anime salve di Fabrizio De André che, purtroppo, risulterà anche
come l’ultimo dei suoi capolavori.
La musica prosegue. C’è anche una
hit di grande successo, Mysterious ways,
che resiste al tempo ed ai passaggi radiofonici ed i remix, perché è un grande
brano dell’album e non un singolo pensato come pezzo a sé stante. Un rischio
che, forse, questa band ha corso più di una volta negli anni a venire. Ma
soprattutto c’è Ultra Violet (light my
way):
Sometimes I feel like I don’t know
Sometimes I feel like checkin’ out
I wanna get it wrong
Can’t always be strong
And love it won’t be long
Questa è una ballata che mi ha
sempre fatto piangere. Spesso ne ho ignorato il motivo perché credo sia diverso ogni
volta. Ma ancora c’è quell’urlo straziante e poi quella voce cupa e calda... baby, baby, baby light my way. Quasi una richiesta di soccorso, un’invocazione o una
preghiera: un pianto disperato d’amore che in qualche modo mi fa riconsiderare
la vita e le cose intorno a me, ogni volta.
L’album si chiude con Love is blindness. Ricordo Bono che dal
palco chiama una ragazza in prima fila e la fa salire sul palco. Il palazzetto
è buio, uno spot illumina solo lui e lei che ballano lentamente. Lei sta per
svenire, forse non crede a quello che le sta capitando mentre lui le canta nell’orecchio.
Non ho mai desiderato così tanto di essere una donna, se non il giorno in cui è
nato mio figlio. La canzone è talmente spettrale da risultare incompatibile con
la parola Love inclusa nel titolo. Eppure nasconde una serie di amori profondi
e forse incompiuti, pagine di vita liofilizzate in quattro minuti di basso che
tuona e di voce che sussurra.
Mi è sembrato durare pochissimo,
questo frammento di me e di passato nel mezzo di quell’insenatura. Poi rincorso
da altre canzoni che non avevano ricordi da consegnarmi, assorto com’ero nel
momento cristallizzato di ventiquattro anni trascorsi ad assorbire il senso di
quelle canzoni e farle mie.
A modo mio.
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