Digressione oceanica

Al chiringuito di Stocking Island davano fish fries e cheeseburger. Ero seduto su uno sgabello sotto il portico legnoso; davanti a me l’oceano, cristallino e mansueto, era solo solleticato da una piccola onda che si frantumava sulla sabbia bianca. Riuscivo ad interpretare il senso della corrente, osservando il suo moto regolare e vibrante, che lambiva, senza inumidire, il bagnasciuga per trascinarsi ad est: quella corrente non aveva ben capito di che morte morire. Da quelle parti capita spesso così: che il mare quasi voglia scherzare con te che sei lì, seduto sulla riva, portandoti via lentamente, e senza un’apparente ragione, verso le profondità del blu.

I pensieri più stravaganti su persone e cose erano come amplificati dal sapore della birra locale, una birra che tratteneva gelosamente, nel suo gusto agrodolce, il soffio del vento ed il saluto del sole. Il contenuto di quei pensieri si faceva allora sempre più concreto, crogiolandosi negli umori estivi ipnotizzati dall’influsso magnetico del vicino tropico del cancro. Giocavo a carte con un pescatore bianco dalla barba ispida e mal curata, esprimendomi con un linguaggio dominato dai gesti più che dalla lingua, peraltro l’inglese. Non certo perché non lo conoscessi, l’inglese, con cui bene o male riesco a districarmi in certe situazioni, saltando prontamente dal maccheronico ‘italiese’ al ben più ricercato ed ostentato tentativo di accento british, ereditato da cinque anni alla scuola di lingue, ma più che altro per un sopito senso di pace che mi rimbombava nella testa: un senso che mi costringeva a rinunciare alla parola, evidentemente inappropriata in un momento così. Giocavamo a scopa, una volta raggiunto l’accordo su che razza di gioco fosse: il pescatore trangugiava birre a ritmi più serrati dei miei, e questo disturbava non poco l'equilibrio dell’improvvisata strana coppia. Ma aveva un sorriso simpatico e riservato. Mi ricordava mio nonno.

Qualche barchetta passava, ad intervalli regolari, a venti metri dalla riva, con quel rumore pernacchiante di motore tipo-vespa-cinquanta dell’ottantatre. Il livello di quiete era tutto sommato memorabile. In quella quiete ero in grado di emarginare all’appendice estrema del mio spazio corporeo tutte le preoccupazioni della vita lasciata a qualche migliaio di chilometri da lì: emarginate e confuse in un asso di denari. Il pescatore seduto di fronte a me, invece, sembrava non averne, di preoccupazioni. Forse riusciva a rimanere perplesso qualche minuto quando la radio annunciava un uragano incombente o una tempesta nei paraggi, rassegnato - lui - a vivere il destino di piccolo passeggero nella crociera infinita della natura che nulla concede; imbarazzato, magari, quando alla fine della giornata non c’erano aragoste o tonni nella sua stiva, tuttavia certo che anche quella sconfitta fosse un segno del suo privato e prezioso destino; addirittura sorpreso quando qualche faccia nuova solcava quelle acque che lui conosceva così bene. E doveva avere un nome, anche se io non ci avevo fatto minimamente caso quando mi si era presentato silenziosamente, convinto com’ero che il solo nome per un uomo così potesse essere Atlantico, come l’Oceano, o Tranquillo, come il suo volto, invecchiato precocemente dall’ambiguo bacio del sole tropicale.

Fu dopo qualche ora passata al fresco riparo del porticato che mi accorsi di quanto diverso fosse il tempo trascorso in quel luogo: nella grande città inseguo le lancette dell’orologio saltando giù dalla moto tra cappuccini e riunioni ansimanti; sui monti francesi mi accorgevoo di vivere perché ogni tanto scrutavo l’orizzonte con lo sguardo ancora sognante e sorprendendo il sole a disegnare traiettorie regolari nel tiepido respiro del tramonto; nella campagna piemontese seguivo il ritmo della giornata annusando giusto un poco le foglie nel giardino, percependo con un sussulto di stupore il loro attento sentimento di difesa. Laggiù no. Potevo distrarmi tra una scala di cuori o una sorsata di birra ed ero certo che erano passati cinque minuti. O cinque ore. Mi irrigidiva, quella scontrosa ed arrogante imperfezione del tempo che passa al caldo dei tropici: mi rendeva ancora più indifeso alla vista curiosa dell’onda che batte il tempo dei popolosi fondali. E delle ampie rive. 



Avevo finalmente raggiunto un accordo con il simpatico pescatore. In caso di una sua sconfitta mi avrebbe scarrozzato da nord a sud fino alla prossima isola dell’arcipelago. Lo avrei aiutato, nei limiti delle mie minime capacità nautiche, ma soprattutto avrei vissuto come uno del posto, come un figlio del Grande Blu. Da quel momento la partita trovò uno strano ritmo: potrei dire che lui voleva a tutti i costi perdere ed io volevo a tutti i costi vincere, in quel crocevia casuale di due vite solitarie che cercavano compagnia. Infilai una serie lunghissima di primiere e settebelli, salutando la mano vittoriosa con un gesto divertito delle sopracciglia. Mi disse che saremmo partiti di lì a qualche minuto, il tempo di preparare la borsa con il ghiaccio per le birre. Friedman. Si chiamava Friedman. Ma per me era Oceano.

In quel periodo Oceano cacciava gli squali. Diceva che c’era un signore, dietro Harbour Bay, che li pagava a peso d’oro. Io gli chiesi cosa diavolo potesse farci con la carne degli squali, ma lui non mi rispose. Evidentemente lo ignorava quanto tutti quelli che cacciavano squali per lui. In mancanza di squali cercava gli spada, obiettivo meno grottesco e certamente più prevedibile per un pescatore d’altura al largo del mare dei Caraibi. Mi assicurai che non ci fossero rischi per entrambe le ricerche e lui mi disse che l’unico rischio era quello di perdere uno strato di pelle per via della morsa secca del sole, mentre si restava cullati dal morbido e monotono dondolio della corrente. A giudicare dal mio colore, già scuro, e forse troppo, tanto da confondere la mia provenienza, i rischi non erano gravi.
Partimmo con il suo yacht quasi sgangherato. Nel preciso istante in cui accese i motori vidi una luce più forte del sole rimbalzare sulla spiaggia del chiringuito. Mi convinsi che era un fantasma rimasto lì da chissà quanto tempo: ci augurava una buona pesca. Invitava calorosamente a ritornare. Fu come se dovessi salutarlo anch’io… Avevo sentito una storia di fantasmi alla spiaggia di Pretty Molly Bay, giù a Little Exuma, e la cosa mi piaceva. La storia di una ragazza morta per amore e da quel giorno vagabonda sulla sua spiaggia dominata da un vecchio albergo, distrutto da un uragano. Oceano mi vide sorridente a prua mentre agitavo il braccio in direzione del nulla sulla spiaggia già nuda, ma non disse niente e mi lasciò fare. 


Dopo un’ora di navigazione i suoi due motori da cavalli-cento-cadauno ci avevano spinti in mare aperto. Il profilo piatto delle isole si era già assopito all’orizzonte, io mi resi conto che eravamo già a quasi cinque chilometri dal chiringuito: ricordavo dai tempi della scuola che l’orizzonte, per l’occhio umano e per via della sfericità della Terra, coincide esattamente con una distanza di quattro-virgola-sei chilometri. Tale speculazione rimase in ogni caso privata: non volevo ricevere insulti prematuri dal mio compagno di viaggio dopo poche ore di convivenza. Lui intanto aveva già arrestato i chiassosi propulsori metallici. Freneticamente si gettò verso la porta di legno che nascondeva tutta l’attrezzatura necessaria alla pesca. Issò una canna spessa ad un gancio in corrispondenza di una poltrona metallica. Preparò esche sanguinolente ed ami simili ad uncini romanzeschi. Gettò la lenza.
Per molto tempo non feci altro che guardare. Oceano era indaffaratissimo nel suo lanciare e tirare quasi isterico. Potevano essere passati dei giorni, spesi a consultare il variopinto alternarsi delle nuvole e a trascrivere le mie sensazioni su un taccuino umido e scolorito, perché non c’era orologio da consultare: nessuna lancetta grazie alla quale presumere di avere una conoscenza delle cose superiore alla misera consapevolezza del mondo che possediamo nel momento. Lui, invero consapevole del suo mondo e delle perfette operazioni che imponeva, aveva pescato già un pesce spada e qualche altro bell’esemplare di dimensioni irrilevanti. Una dozzina di pesci: dovevano essere degni esemplari di bonefish. A me non sembrava vero che quel contesto così romanzesco  fosse davvero la cornice per la mia improvvisata avventura caraibica. Pensavo ad Hemingway. Pensavo a quanto realistico fosse il sentimento di pace che si insinuava nel mio spirito immerso nella lucentezza tiepida dello specchio marino.

Oceano, piuttosto arrabbiato per la carenza di predatori in quelle acque, mi disse che era tempo di tornare: il gasolio per i suoi motori stava scendendo vertiginosamente. Rientrammo in porto a notte fonda. Mentre scaricavamo il pesante bottino, mugugnando a bassa voce consigli per caricarlo più rapidamente su un vecchio pick up Ford tutto ammaccato, vidi che il Two Turtles Inn, solitamente popolato da numerosi neri che abitano dietro Little Haiti, locale che somministra con disinvoltura una quantità da record di liquori caraibici, era nel dormiveglia tipico della festa appena finita. Dovevano essere le tre o le quattro di mattina. Di che giorno proprio non lo so.

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